
Quiet Quitting: cos’è il nuovo “vecchio” trend di Millennials e Gen Z?
Durante la scorsa estate è emerso un fenomeno curioso nel mondo del lavoro, che è rimbalzato sui social in modo molto virale: è stato chiamato quiet quitting, ed è diventato uno dei termini più utilizzati per descrivere una tipologia specifica di atteggiamento che le persone assumono nei confronti del proprio lavoro.
Come molti di questi trend, il quiet quitting è nato negli Stati Uniti, dove la cosiddetta “hustle culture”, la cultura dello stacanovismo, è molto sentita e radicata nella società. Il fenomeno sarebbe quindi in controtendenza con questa cultura della totale abnegazione al lavoro, per abbracciare invece comportamenti più equilibrati per mantenere il posto e vivere più serenamente, sebbene la traduzione letterale del termine sarebbe “abbandono silenzioso” (dall’inglese “to quit” che significa “dimettersi, lasciare, abbandonare”).
Il quiet quitting è diventato virale in modo molto rapido, rimbalzando sulle bacheche social dei professionisti così come sui blog, generando animosi scambi di opinioni sul web: forse però è possibile partire da più lontano, e guardare il fenomeno con una certa naturalità.
Cos’è il quiet quitting?
Il trend racchiude l’insieme di pratiche e comportamenti del lavoratore che si limita semplicemente a svolgere il proprio compito, senza dedicarsi a mansioni in orari straordinari o fuori dal proprio ruolo, e senza lasciarsi coinvolgere a livello emotivo dai progetti e dalle scadenze.
Il fenomeno punta alla ricerca del benessere e dell’equilibrio tra vita privata e lavoro, e contrastare il burnout, ovvero il punto di non ritorno dove si è sopraffatti fisicamente e psicologicamente dai problemi sul luogo di lavoro.
Oltre al burnout, si è notato come il fenomeno del quiet quitting sia strettamente e fisiologicamente legato all’altro trend che ha segnato gli ultimi anni, la great resignation, le “grandi dimissioni di massa” di lavoratori più o meno giovani che, stanchi della cultura aziendale tossica dei loro rispettivi uffici, hanno preferito dimettersi per cercare innanzitutto il benessere fisico e mentale, ancor prima di condizioni lavorative migliori.
I dati a supporto del crescente burnout
Perché questi fenomeni sono sempre più frequenti? Alcuni studi forniscono qualche indizio.
In una ricerca del 2021 di BVA Doxa per Mindwork, servizio di consulenza psicologica per le aziende, sono emersi all’interno dei luoghi di lavoro e delle organizzazioni i seguenti fattori:
- maggiore evidenza di sintomi di burnout, come sensazione di sfinimento, calo dell’efficienza lavorativa, aumento del distacco mentale e cinismo rispetto al lavoro;
- un peso maggiore del lavoro sul work-life balance;
- un maggiore desiderio di distacco dal lavoro per le persone che vivono livelli medio-bassi di benessere sul lavoro.
A ulteriore supporto, secondo una ricerca di Deloitte le evidenze di burnout sono aumentate esponenzialmente, e tra i dati vediamo che un numero considerevole di intervistati ritiene che il burnout non si ferma al luogo di lavoro, ma impatta negativamente anche le relazioni interpersonali, e che anche tra quelli più soddisfatti, più della metà afferma di essere molto stressato.
Questi andamenti avrebbero perciò spinto principalmente le generazioni più giovani di lavoratori, come Millennials e Generazione Z, a scegliere alternative alla routine malsana dei loro posti di lavoro.
Ci sono strumenti e buone pratiche per cambiare rotta e prevenire questo disagio? Sì, e sono più “antichi” di quello che si potrebbe credere.
Come evitare burnout e conseguente quiet quitting?
Se ci fermiamo a guardare i suoi sintomi, possiamo tranquillamente sostenere che l’approccio diametralmente opposto a quello del workaholic sia in effetti sempre esistito, in ogni contesto organizzativo. In ogni ufficio, fabbrica, officina ecc., ci sono sempre stati quei dipendenti o manager che si limitavano a “fare soltanto il loro”, se non anche meno.
Forse ciò che è cambiato oggi è il grado di consapevolezza delle priorità dei lavoratori e della cultura del lavoro, che viene poi tradotta in modo capillare grazie alla grande cassa di risonanza che sono i social media e in generale il web.
Pertanto, le soluzioni da ricercare a questo problema possono essere cercate in pratiche molto più “umane”, invece che strutturate in paradigmi o modelli.
Ascolto, empatia e supporto. E poi dialogo, collaborazione, senso di responsabilità e fiducia reciproca tra dipendenti e manager. Sembrano fattori scontati, ma il più delle volte queste pratiche non sono presenti nella cultura organizzativa di molte aziende.
Ritornare a una cultura aziendale umana
La soluzione quindi è stata sempre sotto gli occhi di tutti: un lavoratore stressato, ignorato o poco motivato, non contribuirà attivamente alla produzione aziendale, e sarà una risorsa dal potenziale ridotto che cercherà alternative.
Per questo motivo, la strada più ovvia è quella di riappropriarsi di una cultura aziendale che metta davvero le persone al centro, che distribuisca responsabilità tra manager e dipendenti in modo naturale e fluido.
Come dice Lars Schmidt, fondatore di Amplify, una società di servizi per le risorse umane, “calibrare i propri impegni e capacità professionali al fine di proteggere il proprio benessere è una funzione naturale di ciò che significa essere un lavoratore nel 2022, o in qualsiasi anno, in realtà.”
E se ci pensiamo bene, in effetti, una volta cancellato il rumore delle voci che popolano il web, il quiet quitting non è altro che un altro nome dato dai social media ad una condizione umana più universale: il semplice lavoro.
“Ci affanniamo nel cercare di trovare una motivazione razionale per questi sentimenti e comportamenti molto normali dei dipendenti”, scrive su Linkedin Tricia Mansfield, chief talent officer di Porter Novelli “ma resterà sempre il semplice ‘prenditi cura dei tuoi dipendenti (qualsiasi cosa voglia dire) e loro si prenderanno cura dei tuoi clienti.’”
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