Brand activism: quando le aziende sposano l’impegno sociale

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Brand activism: quando le aziende sposano l’impegno sociale

Un tempo le aziende e le grandi corporation puntavano solo ed esclusivamente a vendere il loro prodotto, al cosiddetto “posizionamento”. Il marketing e la comunicazione, attraverso le campagne pubblicitarie, erano malleabili al solo scopo di parlare di un prodotto, del suo valore, dei suoi benefici. La reputation dei brand era misurabile in termini di relazione diretta con i loro prodotti, la loro efficacia nel cuore dei consumatori. Quel tempo è ancora oggi. A meno che un’azienda non decida di impegnarsi nel brand activism.

 

Dal purpose al brand activism

“Ora bisogna che le persone amino non solo ciò che offri, ma anche chi sei. Limitarsi a offrire un ottimo gelato non è abbastanza.”

Con queste parole Hanneke Faber, Presidente Food & Refreshment presso Unilever, una delle holding più egemoniche al mondo, indica un nuovo percorso ai brand che desiderano avere successo nel panorama attuale. Da diversi anni ormai, con il consolidamento della visibilità digitale delle aziende, non è più possibile ignorare la possibilità di mettere in campo l’impegno sociale e civico.

Per un’azienda che desidera incontrare i bisogni e le necessità di un target consapevole e socialmente “impegnato” come i Millennials e allo stesso tempo cominciare a fidelizzare la Generazione Z, è arrivato il momento di prendere una posizione su temi come integrazione, ecologia, giustizia sociale, uguaglianza, e molti altri.

La spinta alla base di questo cambiamento di rotta viene definita da Kotler e Sarkar in “Brand Activism. Dal purpose all’azione” il purpose, ovvero lo scopo, la dimensione etica dietro la mission aziendale. Il purpose è una scelta identitaria, l’idea di dare voce ad argomenti sensibili per l’opinione pubblica in un determinato modo.

E quando poi il brand scende in campo, lì avviene il passaggio all’azione vera e propria, il cosiddetto brand activism. Succede quando Nike decide di mostrare sui propri manifesti il viso in primo piano di Colin Kaepernick, il giocatore professionista di football americano discriminato e sospeso a causa delle sue posizioni politiche. Succede quando Lush Cosmetics, Ben & Jerry’s e Patagonia scelgono di chiudere i loro negozi al dettaglio per aderire agli scioperi contro i cambiamenti climatici promossi da Greta Thunberg. Succede quando Toms si impegna a donare un paio di scarpe ai più bisognosi, per ogni paio venduto. E così via.

Il brand activism diventa la chiara volontà dell’azienda di assumersi responsabilità in ambito sociale e di partecipare al raggiungimento del bene comune.

 

Brand activism regressista vs progressista

Attenzione però a considerare l’attivismo solo in relazione di progresso. Infatti, secondo la Treccani l’attivismo è: “[…] concezione etica, fondata sull’idea del supremo valore dell’esplicazione dell’attività vitale, della volontà di vita e di potenza, conglobante in sé ogni altro canone di moralità e di condotta.”

In questo senso, l’azione di un brand può procedere verso direzioni che portano ad accentrare il loro potere sul mercato, nonché accrescere il profitto in nome del personale purpose. Anche quello è da considerarsi attivismo, e a livello operativo viene definito attivismo regressista.

 

Brand activism regressista contro progressista

 

Sono i casi di Shell e la sua opposizione alle proteste contro lo sfruttamento dei giacimenti in Nigeria. O il caso di Volkswagen e lo scandalo che ha riguardato la scoperta della falsificazione delle emissioni di vetture munite di motore diesel. O il caso dei cinque grandi produttori mondiali di tabacco, che per decenni hanno negato i dati sui danni alla salute dei consumatori derivati dal fumo, facendo pressioni su politici per ottenere politiche regressive.

Dall’altro lato della bilancia abbiamo invece l’attivismo progressista di quei brand che scelgono di agire guidati da un purpose più alto della mera ricerca del profitto, cercando di avere un impatto su problemi sociali più gravi. Solitamente queste aziende sono leader nel proprio settore, e le loro azioni si dirigono verso una direzione che migliori la società in nome del raggiungimento del bene comune.

I diversi modelli per brand activism e le strategie

Attualmente le aziende che si impegnano verso azioni di brand activism impiegano molte risorse e investimenti, e diventa interessante osservare come esse navighino all’interno di una moltitudine di iniziative, temi, questioni sociali che attraversano i nostri tempi.

Le imprese hanno quindi di fronte diversi modelli grazie ai quali orientarsi, e tra i più celebri troviamo l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e il Manifesto Davos 2020.

Il primo prevede il raggiungimento di 17 obiettivi per un mondo migliore entro l’anno 2030, con l’obiettivo di porre fine alla povertà, combattere disuguaglianza e affrontare l’urgenza del cambiamento climatico.

Il secondo invece spiega che le aziende debbano pagare la giusta quota di tasse, avere tolleranza zero nei confronti della corruzione, difendere i diritti umani lungo tutta la loro filiera globale, e promuovere condizioni di parità competitiva.

Quali sono quindi le grandi mappe sulle quali orientarsi secondo questi modelli? Sempre Kotler e Sarkar nei individuano sei:

  • Attivismo sociale
  • Attivismo sul posto di lavoro
  • Attivismo politico
  • Attivismo Ambientale
  • Attivismo economico
  • Attivismo giuridico

E chissà se negli anni a venire le diverse problematiche globali verranno risolte o se ne creeranno di altre.

 

Il monitoraggio del brand activism in Italia

Nel frattempo l’attenzione verso le aziende che si impegnano nel brand activism cresce, e si delineano figure ed istituzioni che studiano e offrono strumenti alle aziende per osservare meglio questo fenomeno.
In Italia da qualche mese fa è stato lanciato dall’istituto di ricerca Ipsos e il creativo Paolo Iabichino l’Osservatorio Civic Brands, un nuovo progetto editoriale che racconta l’impegno sociale delle aziende e dei brand in Italia.

Allo stesso modo, l’azienda The Data Appeal Company, specializzata in analisi di big data, ha istituito il Fair Index, uno strumento per le aziende per misurare quanto le azioni di CSR – Corporate Social Responsibility, siano conosciute e apprezzate dalla clientela e dal pubblico del brand. Il Fair Index sarà capace di comprendere la percezione dell’azienda secondo alcuni parametri:

  • Ambientale (green index)
  • Inclusività (inclusion index)
  • Sostenibilità (sustainability index)
  • Impresa sociale (responsibility index)

E ancora, volendo seguire le indicazioni dell’agenda ONU per il 2030 al punto 8, ovvero: “Favorire un lavoro dignitoso e crescita economica, che punta a incentivare una crescita duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti”, non si può non menzionare il lavoro di Great Place to Work. La società offre infatti consulenza e strumenti per monitorare il sentiment dei dipendenti di un’azienda in termini di soddisfazione, crescita, innovazione e inclusione, rilasciando certificati che accrescono il prestigio e la reputation interna al brand.

Un’ottima strategia di brand activism quindi, è anche e soprattutto occuparsi attivamente dei propri dipendenti.

Nel manifesto del Gruppo Immedya, al paragrafo We Are People si legge che l’azienda “Riconosce e valorizza in egual misura i dipendenti, i collaboratori e tutti gli stakeholder aziendali al fine di rendere le persone motivate e produttive in ogni progetto aziendale e per ogni cliente.”

Le potenzialità del successo di una strategia simile ma anche di altre, risiede nel capire quali valori il nostro brand incarna, quali cause ci preoccupano realmente e in che modo possiamo agire attivamente per migliorare la società.

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