Brand activism: perché ce n’è ancora tanto bisogno nel 2022?

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Brand activism: perché ce n’è ancora tanto bisogno nel 2022?

Ne abbiamo già scritto su queste pagine, ma il tema è talmente sfaccettato che si presta ad ulteriori approfondimenti. Il brand activism infatti è oggi più che mai al centro di diversi dibattiti nel mondo della comunicazione, ma non solo, poiché per sua natura, l’argomento è portato a confrontarsi anche con molteplici lati della società

Parliamo di equità sociale, diversity, inclusione e sostenibilità ambientale, tra le grandi problematiche che affliggono la società, e che i brand sempre più stanno affrontando “attivamente”.

 

Perché chiediamo l’attivismo ai brand?

I dati ci raccontano che le persone si aspettano che i marchi assumano delle posizioni in merito alle problematiche sociali ed ambientali, e riservano grandi aspettative sull’impegno e la responsabilità sociale aziendale. 

Nascondersi dietro la politica e l’etica non è più possibile, specialmente per i brand che interagiscono direttamente con i consumatori. Di questi tempi il silenzio è visto come un atteggiamento noncurante o tollerante nei confronti di dinamiche sociali ingiuste.

Il report annuale dei Trend 2022 per Business & Growth della celebre agenzia pubblicitaria Ogilvy, ad esempio, ci dice che il 74% degli americani si aspetta che le aziende agiscano contro il cambiamento climatico.

Questo perché da tempo è venuta a mancare la fiducia in tutte quelle istituzioni che non prendono posizione o che ignorano le problematiche della società

Ciò che si chiede quindi ai brand, soprattutto nel 2022, di vedere “azioni e non chiacchiere”, o per meglio dirlo con le parole del report di Ogilvy, “show, don’t tell”.

 

Quanto conta l’attivismo dei brand purpose driven nel 2022?

Abbiamo già raccontato di brand celebri che negli ultimi anni si sono maggiormente esposti in campagne impegnate ed audaci, le quali estendevano nelle pubblicità il loro purpose, lo scopo della marca.

Esempi come Patagonia, Nike, Ben & Jerry’s, rappresentano infatti l’eccellenza del brand activism

Ma non sempre le scelte di concentrare una fetta di investimenti in questo tipo di azioni vengono comprese, specialmente se le critiche vengono dagli stessi stakeholders, gli investitori esterni all’azienda. 

Come è stato per il recente caso di Unilever e del marchio di maionese Hellmann’s, finito sotto i riflettori a causa delle parole di un investitore esterno, Terry Smith, che ha invitato la casa madre di Hellmann’s a non occuparsi del purpose di una maionese, ma di concentrarsi sul calo di valore dell’azienda rispetto ai competitors. 

Una provocazione che ha fatto discutere e ha diviso le opinioni tra esperti e addetti ai lavori, ma che nella realtà dei fatti e delle statistiche trova poco fondamento. Come si può infatti vedere dal grafico in basso, quasi tutte le grandi compagnie legate ai prodotti di consumo hanno subito andamenti altalenanti e perdite negli ultimi mesi del 2021, eccezion fatta per Nestlé, forse.

 

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La polemica di Smith appare poi ancora più isolata e fuorviante se torniamo di nuovo a guardare lo studio di Ogilvy di sopra, nel quale viene riportato che il 74% degli investitori istituzionali globali rivede gli investimenti se un’azienda non prende in considerazione i criteri ambientali, sociali e di governance (ESG) all’interno del proprio modello di business.

E oltre al sostegno dei numeri e delle opinioni degli esperti, è giunta anche la creatività di Hellmann’s, che durante l’ultimo Super Bowl ha rilasciato uno spot dal taglio divertente ma con un potente messaggio di responsabilità ambientale, a testimonianza che il brand sembra proprio voler continuare anche quest’anno ad impegnarsi attivamente in questioni sociali rilevanti. Con buona pace dei detrattori.

 

Il brand activism è per tutti?

Il dibattito su Hellmann’s ha però fatto nascere una domanda legittima: tutte le aziende possono fare attivismo? La risposta è complessa, ma nella sostanza non tutti i brand sono pronti a intercettare occasioni etiche, culturali, politiche, sociali che possano diventare parte della comunicazione del brand stesso. 

Molti non sono ancora riusciti a fare il passaggio da marketing del prodotto al marketing del valore. Altri sono impreparati a portare all’interno dell’azienda qualcosa che viene dall’esterno, sia dal punto di vista dell’organizzazione sia da quello culturale. Insomma, alcuni non ne hanno bisogno, altri non ne hanno le forze.

Laddove le corporazioni del petrolio provano a “ripulire” la loro immagine, o dove grandi aziende di bibite gassate falliscono nell’autenticità del messaggio attivista, esistono invece esempi felici di realtà nazionali attive come le italiane Altromercato, Davines o il gruppo bancario illimity, che con illimitHER sta costruendo una serie di iniziative orientate alla valorizzazione del potenziale delle giovani donne. Le iniziative mirano a diffondere consapevolezza e cultura delle STEM, impegnandosi a rimuovere i pregiudizi intorno alle aree tecnico scientifiche. 

Insomma la sensazione è che, nonostante il brand activism non sia per tutti e che il contributo di una singola impresa possa essere a volte limitato, la somma di tante piccole azioni avrà in tutti i casi sempre un impatto enorme per rendere il nostro mondo un posto migliore dove vivere.

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